Riporto un articolo (purtroppo) interessante, scritto da Beppe Servergnini e pubblicato sul Corriere della sera due anni fa, ma ancora attuale, a quanto pare!
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…Sono appena rientrato dall’America e, una volta ancora, li ho incontrati: astronomi e ingegneri, biomedici e neurologi, esperti di robotica e oceanografia. Ucla, Cal, Jpl, Nasa, Scripps: le migliori istituzioni scientifiche californiane sono piene di italiani. Spesso non è facile, per loro. La preoccupazioni e le restrizioni seguite all’11 settembre hanno reso più difficile ottenere il “clearance” (nulla osta) per lavorare nei centri di ricerca americani. Ma i nostri ricercatori sono disposti a sopportare anche questo, pur di avere un’opportunità .
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I nomadi hanno patria: ma la patria, purtroppo, se ne dimentica. Mi diceva un ingegnere laureato a Padova, ora professore a Cal (California State University): «Qui negli Usa il mio “pacchetto di partenza” era un fondo di mezzo milione di dollari. In Italia sarebbe stato un blocco d’appunti e una biro». Raccontava un neurologo a San Diego: «Nei congressi medici, i professori italiani sono gli unici che si presentano con un assistente quarantacinquenne incaricato di appendere i poster».
Malinconico? Di più. Preoccupante, se fossimo ancora capaci di preoccuparci. È bello che studiosi e scienziati vadano all’estero (è bello per tutti, a dire il vero). Ma devo andarci sereni: per conoscere, imparare, migliorare; e, magari, tornare. Invece molti ci vanno amareggiati, e in testa hanno un biglietto di solo andata. Una vera politica per il ritorno non è stata fatta. Il successo all’estero è una cosa che nelle università e nelle aziende italiane bisogna farsi perdonare.
Sono cervelli in fuga col mal di fegato: l’anatomia non consente questi prodigi, ma l’Italia sì. Articoli come questo appaiono da anni sui giornali, ma non cambia niente: i soldi per la ricerca sono pochi; i collegamenti industria-università restano deboli; i concorsi in cui tutti sanno chi vince continuano, imperterriti. L’Italia – quella del sud più di quella del nord – sta esportando il meglio di una generazione. Ma che importa, ai geniacci del «Progetto Sansone»? Loro un buco lo troveranno sempre: sotto un’architrave, tra le rovine di due colonne.
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L’articolo completo è visionabile al link http://www.corriere.it/solferino/severgnini/05-06-16/01.spm