Il diritto relegato in una "gabbia" ecco il testamento di Bush

Torture atroci, pessime condizioni igieniche e detenuti in cella senza prove
Insieme agli orrori di Abu Ghraib, “Gitmo” è stata la più grave sconfitta civile degli Usa

Il diritto relegato in una “gabbia”
ecco il testamento di Bush

di VITTORIO ZUCCONI

<B>Il diritto relegato in una Il presidente Usa George W. Bush

WASHINGTON – Dopo sei anni di esistenza, dalla creazione nel 2002, e dopo 775 prigionieri passati nelle sue stie da polli senza incriminazione né accuse formali, il campo di concentramento per “combattenti nemici” creato da Bush nella base di Guantanamo a Cuba produce finalmente i primi sette processi a sette imputati di terrorismo, con ovvie richieste di pena capitale per sei di loro.

Sei anni per arrivare all’annuncio dei primi processi sono un periodo di tempo straordinariamente lungo, per una giustizia americana che si muove con ben altra celerità. Ma Guantanamo, o Gitmo secondo il solito acronimo militare, non è qualcosa che appartenga alla storia di cui l’America, la nazione dell’Habeas Corpus, dei diritti dell’arrestato e del “Giusto Processo” possa andare orgogliosa. E’ amministrativamente, perché Gitmo è territorio cubano in affitto, e moralmente, un corpo estraneo a quello che il mondo, e ormai una larga maggioranza di americani, vuole considerare l’America.

Insieme con gli orrori del carcere di Abu Ghraib, i tre campi di prigionia costruiti in fretta in questa base dei Marines, Camp Iguana, Camp Delta e Camp X-Ray, ora chiuso, sono stati negli anni della “guerra di civiltà” la più grave sconfitta civile che gli Stati Uniti abbiano dovuto subire, assai più devastante delle aggressioni terroristiche ai propri soldati al fronte. Sono stati il retrobottega maleodorante e settico che ha incrinato la vetrina della retorica, agli occhi di miliardi di persone.

Non soltanto, e non principalmente, per maltrattamenti e disumanizzazioni deliberate dei prigionieri, certamente trattati meglio a Gitmo che in qualsiasi segreta di regimi totalitari od organizzazioni terroriste, ma per l’insulto quotidiano a quei principi di legalità e di costituzionalità che sono, da oltre due secoli, il fondamento di una democrazia che si considera la “città luminosa sulla collina”, secondo la famosa definizione di Ronald Reagan.
Guantanamo, con i suoi prigionieri acciuffati a casaccio, come dimostra il fatto che 450 dei 775 sono stati liberati dopo anni di detenzione nell’assenza di qualsiasi ragione per trattenerli e uno soltanto, un australiano, è stato condannato a nove mesi per “fiancheggiamento”, è stata per questi sei anni la negazione materiale della superiorità morale. È stata la gabbia nella quale la presidenza Bush si è voluta rinchiudere nel panico delle giornate successive alll’11 settembre, per dare a un popolo americano giustamente sconvolto e smarrito la sensazione di una pronta e decisa risposta alla minaccia. Ma una volta aperta la gabbia, questa Presidenza non ha più trovato la maniera per uscirne senza smentire se stessa. E senza violare ogni articolo, emendamento, codice e precedente.

Per questo, dietro l’annuncio formale del Pentagono, che ha la responsabilità del campo e dei processi, c’è il sospetto di un’intenzione politica nella scelta di tempo della Casa Bianca. Il fatto che la richiesta di pena di morte per cinque, tra cui il “cervello” dell’11 settembre, il pakistano Khalid Sheikh Mohammed, arrivi oggi, in piena campagna elettorale, rappresenta, insieme con le quotidiane proclamazioni di mirabili progressi in Iraq, il tentativo un estremo di modificare in meglio il testamento politico che questa Amministrazione sta scrivendo per se stessa.

Ed è ansiosa di produrre qualche risultato tangibile per i sette anni di guerra in Afghanistan, i cinque in Iraq, i quattromila e cinquecento soldati uccisi, i mille miliardi spesi e i sei anni d di Guantanamo. Un trompe l’oeil, un gioco di prestigio per lasciare nel cilindro la sostanza di tutti i problemi intatti al successero, si chiami MacCain, Clinton od Obama.

I processi ai “Gitmo six”, a Khalid, cadranno sicuramente nel grembo del futuro presidente, con tutti i nodi costituzionali che in questi anni si sono aggrovigliati. Non si sa neppure esattamente come dovrebbero funzionare queste commissioni militari che dovranno giudicare gli imputati, quali forme di ricorso e di rappresentanza avranno gli accusati, quali materiali a carico e discarico potranno essere utilizzati, perché nessuna di questa commissioni, create per essere un compromesso fra un tribunale ordinario e una corte marziale, ha mai funzionato finora. E si può contare fin d’ora su raffiche di ricorsi e di petizioni a ogni giudice competente, di nuovo fino alla Corte Suprema,

Ma nessuna delle acrobazie legali o verbali usate finora dalla Casa Bianca per aggirare la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra pesa quanto pesa l’impiego della tortura usata per farli confessare. Nessun tribunale americano, neppure negli anni della seconda Guerra Mondiale quando lo Fbi arrestava gli agenti hitleriani in Usa avendo sospeso, come è legittimo fare in tempo di guerra, lo habeas corpus, ha mai accettato confessioni estorte con la tortura e con quella tecnica del “waterboarding”, della simulazione atroce dell’annegamento, che soltanto Bush e i suoi ministri fingono di non considerare tortura. Mentre tale è giudicata, e quindi proibita, dagli stessi manuali militari americani.

Toccherà dunque al repubblicano John MacCain, se vincerà lui, rimangiarsi quello che ha finora sempre sostenuto da veterano delle sevizie vietnamite, che il “waterboarding” è tortura, se vuole celebrare i processi militari o ai democratici Clinton e Obama spiegare che cosa intendano fare di quegli imputati e di quel campo di concentramento nel quale, da sei anni, l’America della “politics of fear”, della strategia della paura, ha rinchiuso e umiliato se stessa.

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